mercoledì 24 luglio 2013

Diversità, appartenenza

"Allora, come è andata?" mi hanno chiesto i colleghi al ritorno dall'avventura del fine settimana scorso.
"Abbiamo saputo che la salita al Vioz è stata una bella avventura, ne parlano tutti - c'era perfino un articolo sul giornale...".
"Bella domanda..." ho pensato tra me e me.

"Com'è andata ?" è una domanda che ha un suono diverso per me e per gli altri quattro colleghi che il Vioz l'hanno visto nelle foto del sito del rifugio (e nelle immagini spettacolari che ci hanno mostrato quelli che il Vioz lo hanno vissuto sul serio, in prima persona).
La mia prova di resilienza è stata sicuramente diversa. La nostra prova di resilienza è stata diversa.

Respirare l'aria dell'entusiasmo della prima sera, nella sala TV dell'hotel che ci ospitava, è stato elettrizzante anche per noi che lì sopra non ci andavamo. Ci ha sicuramente fatto piacere che alcuni si siano prodigati fino all'ultimo per tentare di "motivarci" a salire: "Sarebbe bello che anche tu fossi della compagnia!" è un bel messaggio.
Però...
Travolti dall'impeto di partire, arrivare, conquistare, parecchi colleghi si sono dimenticati di chi "rimaneva giù" anche solo per salutare e poter vivere dei minimi scampoli della grande avventura del Vioz. Non un cenno di comprensione, non un messaggio di solidarietà, non un minimo interesse per i motivi della rinuncia (qualcuno se li ricordava, sempre che li sapesse?), non un apprezzamento per il "disturbo" di essere lì senza avere la ricompensa di poter poi dire "ce l'ho fatta".
Ecco la nostra prova di resilienza: non soccombere al pericolo dalla "sindrome di Calimero" che rapidamente ci spostava dal dubbio ("forse avrei potuto provare", "forse sarei dovuto salire"), alla rabbia ("qualcuno si ricorda perché non salgo?"), fino al comodo rifugio della fuga di un "era meglio se me ne stavo direttamente a casa".

Così è iniziato il nostro Vioz. Non uno sforzo fisico, ma lo sforzo mentale di dover riuscire ad accettare (prima di pretendere che fossero gli altri ad accettarlo) non di essere semplicemente i "panchinari" ma di trovarci direttamente in tribuna. Essere una minoranza ma, nonostante questo, appartenere al gruppo. Ammettere e accettare i nostri limiti di poterci essere solo nei primi e negli ultimi momenti della spedizione. Del resto arriva un bel momento in cui si deve tirare una riga rossa e riconoscere i propri limiti oltre i quali c'è l'incoscienza. E saremmo stati dei begli incoscienti a salire, oltreché un peso per tutti...

Poi abbiamo fatto la nostra piccola esperienza di formazione. E' stata una bella sorpresa e una piacevole esperienza; abbiamo attraversato paesaggi naturali paradisiaci, anche noi accompagnati dalla "nostra" Beatrice (nome omen). Abbiamo giocato, abbiamo imparato qualcosa di nuovo, abbiamo iniziato a conoscerci e riconoscerci in un ambito ristretto che - pur essendo maggiormente controllabile - è stato uno spazio in cui abbiamo dovuto esporci, non avendo la possibilità di "nasconderci nella numerosità". Ci siamo sentiti parte di un gruppo.

Sabato mattina, alla fine, ci siamo ricongiunti con tutti gli altri e abbiamo capito.
Abbiamo capito che non eravamo diversi noi, solo il percorso era diverso. Lassù, al Vioz, c'era *tutta* Climaveneta: c'eravamo anche noi e, una volta scesi, dovevamo fare in modo che ci fossero anche quelli che erano rimasti in ufficio a lavorare.

Di certo non ci siamo sentiti di serie B, così come Buffon non si sente meno importante perché non segna un gol ad ogni partita. Però ci sono anche rimaste delle domande senza risposta: le due esperienze, sicuramente diverse e divise, potevano (dovevano?) essere ricomposte?
E come era stata l'esperienza formativa del gruppo che era salito? Era solo una nostra impressione o nel loro caso l'aspetto "fisico" era stato prevalente, mentre la formazione era stata "lasciata" alla salita, come una specie di effetto collaterale?

In ogni caso, se all'inizio eravamo dubbiosi, ora eravamo totalmente convinti che fosse stata un'esperienza che andava vissuta. E ci sentivamo di voler ringraziare chi ci aveva dato la possibilità di farcela provare.


"Allora, come è andata?" insistevano i colleghi, vedendomi un po' titubante.
"Bella esperienza, davvero" sono riuscito a dire, alla fine.
"Ah... a proposito... Lo sapete che io non sono salito fin lassù, vero?".

2 commenti:

  1. Grandissimo Stefano! Hai lanciato molti punti di riflessione interessanti. Ma Buffon non è da te ;-)))))

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  2. Ciao Stefano,
    il tuo Post è secondo me di grande valore. Penso veramente che sia stato molto difficile stare giù. Pensando a voi, mi viene in mente Pietro Trabucchi che raccontava del team di soccorritori della gara in alta montagna. Costretti ad attendere .... forse per nulla, forse per un'emergenza nel momento in cui non te lo aspetti.
    Così come mi vengono in mente i team che accompagnano degli scalatori che attaccano degli 8.000. I team sono numerosi, ma solo uno o due salgono in cima.
    Così come mi vengono in mente gli allenatori, le persone dei team sportivi che preparano gli atleti. Penso che il lavoro di questi TeamPlayer sia fondamentali in una squadra. Spesso però è un lavoro nell'ombra, poco evidente e non riconosciuto.
    Infine le tue due domande:
    - le due esperienze, sicuramente diverse e divise, potevano (dovevano?) essere ricomposte?
    - E come era stata l'esperienza formativa del gruppo che era salito?
    Sai che io amo le domande: sono la chiave per riflettere e per apprendere. Penso che a volte sia meglio andarsene da dei corsi di formazione con delle buone domande, piuttosto che con risposte. Riflettendo si cresce.
    Comunque: secondo me le due esperienze vanno condivise. Ci vedremo a settembre. Ed in quell'occasione vedremo cosa ha appreso il gruppo che è salito.
    Ciao e grazie.

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